Dopo quella a Torino, avvenuta in Maggio/Giugno 2017 presso la Galleria d’arte Monia Malinpensa, la mostra di disegni “EPIDAURO, Architettura come forma”, ha avuto una sua interessante evoluzione. Dal 25 al 28 gennaio i disegni saranno infatti esposti all’ ART INNSBRUCK 2018, ad Innsbruck, in Austria. Dunque dopo essere stati presentati alla facoltà di Architettura di Venezia e al Politecnico di Bari in due masterclass, e dopo aver avuto una vetrina d’eccellenza quale la Galleria d’arte torinese, i disegni di Domenico Tangaro varcano i confini nazionali, in Austria appunto.

«Epidauro – commenta Tangaro -, è il taccuino di un architetto viaggiatore che, per guarire delle malattie dell’architettura del Novecento si interroga sulla forma, sull’architettura come forma, cercando una forma, una nuova forma o un’alternativa ad essa, tra le forme possibili».

Nell’introduzione al catalogo, Raffaele Nigro scrive: «Per far chiarezza dentro se stessi spesso è necessario tornare alle origini delle cose. Il viaggio ad Atene era ritenuto un tempo un percorso formativo e la gioventù europea si allontanava dalle metropoli borghesi per attraversare quel mare Egeo che aveva tenuto a battesimo la civiltà. Allo stesso modo in cui altri, dietro la scorta dell’idealismo tedesco o della metafisica di Schopenhauer e di Hesse fuggiranno ancora più a ritroso, verso l’India, bacino aurorale della storia.

Tutta una mitologia del distacco e del rinnovo alimenta il passaggio da Brindisi ai porti del Pireo, di Igoumenitsa o di Katakolon. L’Adriatico lì pare chiudersi un mondo alle spalle, tagliare del tutto con l’occidente per guardare ai luoghi dove sorge il sole. Una tradizione mai confutata e comunque così radicata nella cultura salentina dice che il viaggiatore in partenza per Atene può, sulla balconata che offre l’ultimo approdo della via Appia, osservare ancora oggi la casa di Virgilio. E’ un affaccio sul mare e poche suppellettili antiche, alcune arcate a tutto sesto, il rosso pompeiano degli ambienti, sono sufficienti a portare la mente all’età latina. Virgilio malato si affaccia a quelle finestre, sente il mare come il limite tra fisico e metafisico.

Lo stesso Orazio d’altro canto aveva chiuso la Satira Quinta a Brindisi, in quel percorso travagliato che lo porta da Roma a Terracina e poi a Canosa, a Bari e a Egnazia. Il percorso del mare, l’arrivo ad Atene, lui non lo aveva incluso nel racconto, quasi a dividere l’occidente da ciò che stava oltre. La vita dalle sue scaturigini.

Questa concezione del passaggio dalle sponde di un luogo fisico e imperfetto a qualcosa di perfetto e impalpabile, considerato tale per il solo fatto di appartenere al momento aurorale della civiltà, è recuperato in tempi recenti dai grandi viaggiatori anglo tedeschi, da Keats a Byron a Goethe.

L’Europa malata è sempre nel Mediterraneo che crede di potersi guarire. Almeno così era accaduto alle grandi regine d’Austria scese in Grecia per guarire se stesse da malesseri fisici e metafisici.

“Io non vedrò mai Leuca – racconta lo scrittore Claudio Marabini dalla sponda del medio Adriatico – perché quello è il limite estremo di un ponte oltre il quale immagino ci sia il mio paradiso”. Per timore che si frantumi un sogno, egli preferisce restare aldiquà, nella non conoscenza. Mentre Kavafis incarna nella metafora di Itaca e del richiamo perenne alla culla cui l’uomo, Ulisse infelice e inquieto, anela, il mito eterno del ritorno.

Il mio primo percorso greco ebbe tra le molte tappe, il Peloponneso, Corinto, Micene, l’Acropoli, Epidauro. Nella confusione dei visitatori, in un andirivieni di turisti vocianti, attrezzati di zaini, di panini, di radioline, di cellulari, di Coca Cola che frenavano ogni possibile stacco con la modernità, non fu semplice costruirmi un rifugio mentale. Non lo fu attraverso le parole della guida che spiegava con noia professionale e che mi riportava ai tempi delle gite scolastiche ma non a quelli della civiltà che stavo visitando.

Il viaggio è un’altra cosa. Il viaggio è l’avventura spirituale e antropologica, l’incontro con le pietre, con la natura, col silenzio e soprattutto con la gente del posto, col suo passato, ma in una comunione personale e profonda.

E tornai altre volte, per sentire la voce vera del Mediterraneo. Quella di un Mediterraneo classico, che precede l’altro cattolico o islamico, ma che si compatta in un’unica immagine, una immagine cangiante, ora fatta di tempestosità ora di quiete, di guerre e di scambi.

E’ il vecchio pescatore che osserva il sole sul mare, i ragazzi che tornano da scuola, i gabbiani che compassano il cielo sopra la rena, i passeri che riempiono di frastuoni la siepe o la tomba di Atreo, la schiuma da cui puoi immaginare nascerà tra un istante o tra una settimana la dea della bellezza o la sirena che si è uccisa per amore dell’eroe greco. Il viaggio sulle rive del Mediterraneo è il silenzio, il tempo scandito nella sua lentezza, il viaggio che apre ad altri viaggi mentali, ma solo in un rapporto profondo tra l’io e le cose, tra l’io e la storia, tra la mente che osserva e la memoria che incalza.

Rivedi improvvisamente le navi fenicie che partono alla volta di Cartagine, quelle dei coloni greci che approderanno in Sicilia, le armate Romane che vengono alla conquista di Atene e poi la voce flebile ma ferma di Socrate che congeda i discepoli e la vita, per inseguire un progetto di rettitudine etica. Quando Domenico Tangaro dice di aver sentito la necessità di scendere a Epidauro e fermarsi per molti giorni esprime una identica necessità di dialogo silenzioso con gli uomini, i panorami, le pietre di cui ho detto finora. Io me lo figuro mentre esce da un piccolo albergo della periferia, nell’aria pulita del mattino, l’odore del caffè che lo insegue tra le siepi. Non ci sono voci, il mattino è come il primo mattino del mondo, mentre il visitatore solitario raggiunge per uno sterrato il sito archeologico.

Questa mattina finalmente riesce a concentrarsi, a porsi qualche interrogativo, mentre la campagna lo accoglie, gli prospetta la possibilità del ritorno alla semplicità e a una sorta di comunione panica. Nella sua mente suppongo si assiepino molti interrogativi: Dove è giunta l’architettura dei nostri tempi, quale rapporto mantiene con la bellezza e in che equilibrio sono pietra consumi affari cemento e natura? E’ una sorta di esistenzialismo tecnico che si va aprendo davanti alla mente, un passaggio obbligato verso un esistenzialismo filosofico più globale. Per cinquant’anni il mondo ha obbedito a una furia pragmatica, a un’esigenza di edificazione selvaggia, con una scelta degli spazi edificabili dettata dalla necessità e dall’affarismo prima, dalla guerra per bande, poi. Una furia iconoclasta ha portato spesso a distruggere spazi manufatti edifici del passato per il solo scopo di sostituirli con strutture più comode, più pratiche, più moderne.

E a un’età in cui una sorta di ansia metafisica si sposava a esigenze di praticità ma entrambi avevano in rispetto anche l’estetica, si è sostituita un’altra, quotidiana e pragmatica. Non c’era più alle spalle un principe o una casa regnante, non più una ideologia della monumentalità rispondente a una necessità di consegnare la propria grandezza alla grandezza dei manufatti, pietra, calce, sculture, fregi o levigatezza olimpica.

La società democratica, figlia dell’estetica marxista, è corsa verso i valori della praticità, comodità, democratizzazione dei beni, e sulla spinta della necessità di dare una casa a tutti si è lasciata vincere dall’idea che la bellezza fosse un sovrappiù, una sovrastruttura, uno spreco.

L’architettura fino all’osso di questi anni, pilastri portanti e tufo o mattoni forati, o prefabbricati e cartongessi sovrapposti l’uno all’altro in ragione del risparmio e dell’immediatezza, ha definito la mappa dei nuovi poteri e delle nuove esigenze: costruire nell’edilizia pubblica casermoni di box e di open space nei quali non fossero sempre le comodità dei lavoratori ma il risparmio e la concretizzazione immediata del lavoro a privilegiarne e porcilaie per ingabbiare operai, ex contadini, ex braccianti, ex piccolo borghesi, in quella privata. Edificare presto e alla meno peggio con poca spesa e con molto profitto.

Non sono i secoli da sfidare, ma lo spazio di una generazione. E i geometri si sono improvvisati ingegneri e architetti, i muratori si sono improvvisati capimastri e costruttori. E’ nata un’epoca di iene con connivenze spaventose tra cavalieri del cemento e ministeri per le opere pubbliche. Un’epoca in cui speculazione, interessi di parte, lottizzazioni selvagge hanno come rinnegato le antiche ragioni dell’architettura e della vista. Le mani sulla città, di Rosi ne sono un racconto esemplare. Le rese spaventose di edifici collassati nell’arco di qualche decennio, come è accaduto in molte regioni d’Italia, ne sono tangibile testimonianza.

La policentricità urbana ha fatto da tempo superare il bisogno dell’agorà o di un punto centrale per la gestione dei momenti di incontro collettivo, una piazza, un corso, un tempio importante, un monumento. D’altro canto anche le nostre abitudini sono tanto mutate da aver imposto nuove esigenze.

In uno spazio urbano moderno sono sempre più rari i luoghi in cui si rispetti la voglia di monumentalità o il piacere di costruire per soddisfare l’occhio e lo spirito dell’osservatore. Casermoni e scatole di cemento, alveari infelici e infiniti o al più strutture postmoderne di ipermercati capaci di simulare l’immagine della città perfetta e felice.

Costruzioni che se ci hanno offerto maggiori comodità, hanno spesso trasformato il panorama urbano in una infinita periferia. Sicuramente queste riflessioni hanno aggredito il nostro viaggiatore solitario, mentre si accostava all’antica Epidauro e osservava non più o non soltanto l’insieme degli edifici ma scendeva in rilievi analitici e minimalistici, osservava la connessione tra i conci, i dettagli delle scanalature, la fuga delle linee, la perfezione delle rastremazioni, la passione artigianale espressa nelle rifiniture, nei fregi. Insomma tutta una serie di interventi che oggi non sono più possibili perché hanno un costo e chiedono una manualità sparita. Tutta una serie di interventi che costituiscono sulla facciata di un edificio antico motivo di richiamo, che catalizzano l’attenzione dei moderni, sono motivo di sorpresa e di stupore.

La grandezza dunque e la minuzia. Il gigantismo edilizio e la perfezione analitica, il dettaglio, la raffinatezza compositiva delle grandi e delle piccole strutture. Cose che oggi sono rimaste per esempio nell’alta sartoria e che non ci inducono certo a rinnegare la sbrigatività del pret a porter ma che tuttavia ci dicono che esistono profonde differenze tra l’eleganza, l’alta classe e il casual e che c’è un momento in cui si richiede la prima e un altro in cui è utile il secondo. Cose che un tempo erano possibili nell’ebanisteria, una disciplina che non trova più posto nelle moderne fabbriche di mobili usa e getta. E che tuttavia, proprio per la fame di antico che è esplosa nella moderna borghesia non soltanto urbana ci dice che non muore mai nell’individuo la voglia di bello, di perfetto, di gradevole.

Un oggetto un edificio un mobile, antico o moderno che sia, purché abbia il crisma della unicità e della perfezione manuale. Si veda insomma la fatica dell’artigiano, la creatività la passione il tempo consumati intorno al manufatto e lasciati in eredità al futuro. Tra tanta modernità industriale teniamo sempre in grande rispetto il tavolo o la libreria o la consolle lasciatici in eredità da qualcuno, il pezzo antico cercato presso il rigattiere di periferia, l’oggetto diverso, unico, strano, che un po’ racconti a noi stessi e magari a una visita la nostra individualità ed eterogeneità.

E’ un po’ questo senso delle collezioni private, delle quadrerie, delle piccole esposizioni personali che talora sfiorano il maniacale ma che quasi sempre tradiscono la voglia dell’individuo di sfuggire al grigiore del formicaio e della massificazione borghese.

E’ il segno tangibile di una diversificazione che l’individuo avverte dentro di sé e che non sempre riesce ad esprimere, a far emergere, a contagiare. Ecco, l’edilizia dei nostri anni, alla quale pure dobbiamo i meriti della praticità in assetti sociali in cui tutti hanno diritto al benessere, non ha inteso più sfidare i tempi, offrirsi come memoria di un momento e di una stagione anche nell’esaltazione della forma. Farsi insomma arte.

Affidiamo alla storia una sapienza edilizia, una conoscenza dell’architettura verticale che raggiunge la monumentalità nelle foreste di grattacieli che si vanno spargendo in tutte le megalopoli occidentali e contemporaneamente la contiguità muraria e cementizia nelle metropoli tristemente infinite come Città del Messico, Pechino e Calcutta.

I molti ghetti dove dormire, i pochi prodotti da ammirare. In fondo sono monumenti dello scompiglio urbano, immagine di una società che non ha più progetti ma che vive alla giornata, arraffando per sé e negando continuità alla vita e alle generazioni che verranno. In tutto questo ecco la sommessa voce di Domenico Tangaro, che diventa grido e proposta. Un elogio della semplicità, mentre ci accompagna verso Epidauro o verso un qualunque sito archeologico del Mediterraneo. Un elogio che addita nella monumentalità ma anche nel minimalismo artigianale degli antichi le strade per fondare un’architettura più umana e più attenta alle ragioni del gusto, della vista e dello spirito».

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