«Eccellenza Sig. Prefetto,

la Città di Andria Le porge mio tramite il più riconoscente saluto per la Sua rinnovata e importante presenza, che ha di fatto consentito a questo momento di diventare idealmente quello di unità territoriale della sesta provincia pugliese. Grazie!

On. Matera, autorità militari di ogni ordine e grado, autorevoli rappresentanti politici provinciali e comunali, dirigenti scolastici, docenti, studenti rappresentanti dei vari gradi di istruzione, associazioni combattentistiche e d’arma, associazioni di protezione civile, Forum Città dei Giovani, comitato studentesco, parti sociali, donne e uomini dello Stato, musicisti, club Storie e Motori Federiciani, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, cittadine e cittadini tutti, sentimenti di grande emozione e gratitudine mi accompagnano in questo momento solenne, al termine della profonda riflessione che abbiamo vissuto in questo 25 aprile e che, ancora una volta, ha avuto la forza, l’originalità, lo studio, la passione, la freschezza e l’impegno dei nostri ragazzi e dei loro educatori e accompagnatori. Storia, parole e musiche che si fanno memoria e monito. Grazie!

La guerra della follia dichiarata divampa in Europa, la vecchia Europa, ormai da più di un anno. Lo scorso 25 aprile, ricordate, eravamo qui con i colori giallo-ciano sullo sfondo, speranzosi che di lì a poco sarebbe stata annunciata la fine del conflitto russo-ucraino.

Invece eccoci, a parlare di guerra, nel giorno della nostra liberazione storica dalla guerra. Scherzo del destino? Coincidenza? No, amara realtà. Che fa i conti con una forma inedita di conflitto, nella sua drammatica epifania. Il male si è fatto più “spesso”, tangibile o, meglio ancora, palpabile. È uscito dalla sua configurazione banale, per assumere l’aspetto di un grande dramma collettivo, accettato quasi con la rassegnazione dei popoli, anche se non tutti lo subiscono allo stesso modo. La rassegnazione della massa è il primo alleato della violenza, in qualunque sua forma; va bandita! E noi non siamo e non dobbiamo essere donne e uomini di rassegnazione, di subdola accettazione; non possiamo essere complici di una nuova violenza, di moderni conflitti.

Non è possibile che un dramma di portata mondiale lasci tutti ancora ai blocchi di partenza, tanto che l’assuefazione a questo stato di cose, in fondo, sia l’overture di un’opera già ascoltata. Sì, perché ricordiamolo: noi nella Guerra, quella mondiale, ci siamo stati. E non è passato molto tempo da allora.

È brutto dirlo, ma siamo tutti nuovamente in guerra. Non solo attraverso le forme originali del conflitto. La guerra è mediatica, la guerra è politica, è economica, è ambientale, la guerra è sociale.

Al di là di giudizi possibili sugli eventi in Ucraina, su cui restano da chiarire tanti aspetti marginali che si fanno sostanza, il concetto di scontro si è sedimentato nell’accettazione quotidiana di ognuno. Appare addirittura normale che, a distanza di quasi un secolo da quell’ultimo conflitto, ci possa essere ancora chi continua a tirare in ballo un dualismo che somiglia a tifo da stadio, senza spiegare perché da una parte ci sia il bene e dall’altra il male. Ma che confonde tutto in una contrapposizione fatta di posizioni comode, buone solo ad individuare due blocchi, due schieramenti. Un vincitore ed un perdente, ma deciso a tavolino.

La difficoltà di vivere il nostro tempo non si scioglie al sole semplicemente con un rituale fatto di parole destinate a svuotarsi nell’aria dopo essere state pronunciate. A cosa vale, nel 2023, richiamare alla memoria figure storiche e categorie obsolete, quando questo nostro lacero Paese non ha ancora gustato il senso della pacificazione? Nella Carta Costituzionale vibra il patto antifascista, anche se qualcuno tenta maldestramente di oscurarlo o dimenticarlo. Costituzione uguale antifascismo. Che non è una sanzione contro pochi e stanchi reduci di un tempo che non è più. Esso dovrebbe essere il monito infuocato affinché l’Italia, che versò lacrime e sangue, non torni sui suoi passi. Ed è questo che significa resistenza. Opporsi con tutta la coscienza e la lezione civile, ricevuta da quei nostri nonni e padri, alcuni presenti qui oggi, in carne ed ossa, sopravvissuti alla guerra, molti altri con nomi impressi nelle pietre dei nostri monumenti ai caduti di tutte le guerre, opporsi, dicevo, all’ingiustizia, alla discriminazione, alle intolleranze.

Ragazzi, mi rivolgo soprattutto a voi, ai miei figli: i nemici di oggi non indossano più uniformi grigioverde, ma sono seduti nelle stanze dei bottoni e decidono asetticamente chi vive e chi muore. Però, badate bene: l’Italia non fa preferenze tra i morti: per noi, figli di quella resistenza nata tra le montagne, nelle piazze e tra le fila dei soldati smarriti ed internati nei campi di lavoro, il valore della pace è prezioso in ogni direzione e ad ogni latitudine.

Oggi festeggiamo con il cuore abbrunito da questo conflitto cruento, che divampa a poche decine di chilometri dai nostri confini europei, uccidendo persone e distruggendo memorie, da ogni parte.

Oggi festeggiamo con il cuore ferito per i tanti conflitti sparsi nel mondo, molti meno noti perché di popoli che non fanno notizia, perchè non hanno valore economico. Per noi sono sempre guerre. Quelle da cui fuggono tanti profughi che a volte il nostro mare non accoglie, anzi: respinge e condanna alla morte. Anche quelle sono guerre che non possiamo sottacere.

E allora ecco, il nostro NO alla guerra sia la preghiera laica che leviamo il 25 aprile, lontano dalla retorica. Da ogni retorica.

Oggi, come ieri, resistere è un dovere! E noi siamo donne e uomini della Resistenza.

Buona Festa di Liberazione! W l’Italia!»

 

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